Dantedì ultimo scorso

E’ passato il 25 marzo 2020. Tutti i media hanno ripetuto all’unisono la parola “Dantedì”, riferito di scolaresche studiose, di intellettuali di chiara fama, di autorità ed istituzioni tutte impegnate nella celebrazione del  grande poeta. Nello spazio di poche ore il rito virtuoso si è celebrato. Ora bisogna tornare alle cose importanti: il coronavirus, il governo, lo spread, la guerra alle porte di casa, il clima impazzito, la maremma in secca… Tutti si dichiarano d’accordo a celebrare Dante, ma fra i celebranti sembra in vigore il patto segreto di farlo per un tempo limitato: il Dantedì, appunto, il 25 di marzo, data mitica dell’inizio del celebre viaggio nell’aldilà. E già il 26 di Dante non si parla più. Con un preludio del genere, per il 2021 si annuncia un diluvio caotico di manifestazioni di ogni tipo, tutte con una data di scadenza, che lascia presumere che, passato il rito laico dell’anniversario, la gente tornerà a reagire al nome di Dante con moti di insofferenza e fastidio e di fatto ad ignorarlo. Pare che nessuno abbia letto De Sanctis. Certamente nessuno ha elaborato una strategia culturale analoga a quella concepita da Benedetto Croce, ministro dell’istruzione, per il seicentenario del 1921.

Sopra a questa stanca ritualità, a questa unanimità ambivalente, aleggia un fumus sacrificale. La fama del poeta è tale che pare che qualsiasi idea faccia al caso, e questa è forse una delle ragioni, ma non l’unica, della mancanza di una strategia. Nessuno è indifferente al settecentenario. Già il nome di ‘Dantedì’ pare l’invenzione di un vecchio frate che mescola in modo non tanto inedito il nome di un uomo e quello delle divinità pagane cui i giorni della settimana sono intitolati, le “bestie trionfanti” del sogno già romantico del Bruno di sovvertirne l’ordine. O forse quello meno romantico di mistificare il preciso simbolismo pasquale delle date nelle quali è situata la Commedia. Come tante “giornate” (del teatro, dei cani abbandonati, dell’autismo, eccetera) quella dedicata a Dante pare in fin dei conti utile per riunire una folla di presunti pari per un momento, e poi pensare ad altro. Un rito fra i tanti, insomma, al quale si partecipa sperando sempre che non sia la solita noia.

I cultori della materia hanno però sbagliato le misure del sarcofago. Appena echeggiano le sue parole, il “morto” torna vivo, si alza in piedi e se ne va in giro come se niente fosse. Questo di solito non succede nelle cerimonie funebri. La prima cosa che fa il morto-vivo è svelarne il funzionamento, pochi canti dopo l’inizio (VIII, IX e X). Si tratta, come recita un versetto evangelico, di “cose nascoste dalla fondazione del mondo” che Dante cita, come al solito, quasi letteralmente. “La dottrina che s’asconde”, è preceduta dall’imperativo “mirate”, e seguita dall’incontro con Farinata, il cui cadavere fu disseppellito per essere ammazzato una seconda volta, bruciato come eretico. Dante allora era un ragazzo e forse è stato spettatore del macabro rituale. La sua scatenata fantasia lega in questa scena della doppia morte di un morto altri due morti, un padre e un figlio, tutti vivi come non mai. Come la mettiamo? Non sapendo che pesci pigliare con tutti questi morti viventi, i sacerdoti del culto preferiscono astenersi dalla spiegazione di un gioco che assegna loro una parte ridicola e, serissimi, celebrarsi fra loro. La noia diventa allora, quella sì, veramente mortale. Rimane alla gente comune oggi seppellita nelle sue case dal coronavirus la domanda ma perché questo Dante è così importante?

La domanda non è peregrina. Dante, da vivo ebbe uno strepitoso successo. Fu conosciuto, apprezzato, trascritto e imparato a memoria. I versi, il cui pubblico iniziale erano gli spirituali francescani che lo usavano come una sorta di breviario di predicazione, furono poi ripetuti e ricordati da notai e banchieri, pastori e fabbri, gente con lettere e senza lettere. Chi li sapeva li ripeteva, chi non li sapeva li ascoltava, e li trascriveva, se sapeva scrivere. Saperla a memoria era considerato normale, anzi l’unico modo di saperla. La pronuncia ad alta voce, la dettatura, il ruminamento, la declamazione dal pulpito erano pratiche quotidiane. Soprattutto comune era la dettatura scolastica. Era una oralità diversa dalla nostra, con la quale Dante inventò di sana pianta un incredibile gioco cortese e volgare al tempo stesso. E’ proprio quando le parole scoccano senza le finalità “espressive” introdotte dai secoli successivi che i significati colpiscono diritti e duri come frecce.

Ma Dante fu anche duramente invidiato e osteggiato oltre ogni limite umano. Da morto, il cardinal Dal Poggetto (quello della rocca di Galliera di Bologna, una questura camuffata da palazzo nobiliare) cercò di impadronirsi del corpo per bruciarlo (come Farinata). Il De Monarchia fu messo all’indice. Tutti gli autografi scomparvero, secondo Federico Zeri, per paura di chi li aveva di essere accusato di negromanzia dal Santo Uffizio. L’aggettivo Divina e la maiuscola furono aggiunti all’ umile termine, originale e giocoso, di comedìa, da un Boccaccio ormai vecchio, prete e desideroso di farsi perdonare il pepe delle novelle. Il Bembo, cardinale, come il Della Casa, inizia a osservare che certi termini sono inadeguati ai salotti. Il numero e la misura dei canti e una promozione con “testimonials” del calibro di Michelangelo avevano facilitato i primi stampatori, che li riunirono in volume. La Commedia non era nata per questo, ma divenne presto uno dei libri più stampati e diffusi fino a quando la stampa non venne inibita dai controriformatori. Fra il 1596 e il 1702 si ebbero solo tre ristampe. E pur ci furono.

Nata dalla consultazione di raffinatissimi manoscritti illustrati su pergamena, essa perse la voce umana che ne produce le figure e assunse i modi di lettura silenziosi e solitari tipici stampa a caratteri mobili. All’inverso di quanto successe poi con il cinema, il parlato cedette al muto. Nel silenzio delle biblioteche eruditi incipriati e imparruccati, che non si lavavano mai perché il corpo era considerato peccaminoso in sé, quegli stessi che indussero il Tasso a riscrivere la Gerusalemme Liberata per schivare i pettegolezzi e i sospetti, iniziano a scrivere commenti deliberatamente fuorvianti, ad inventare etimi assurdi, a proporre varianti ridicole al testo, ansiosi di guadagnarsi il favore proprio di quei superiori simoniaci che il poeta martella. Il poema viene seppellito sotto un imponente sedimento di commenti inutili e talvolta di sguaiataggini. Comincia così il suo declino.

Dopo il fulmine della diabolica invenzione di Gutemberg, i tuoni di Lutero, Spinoza e Vico, e il diluvio di razionalismo che, grazie alla stampa a caratteri mobili, inizia a fertilizzare l’Europa un gesuita, Saverio Bettinelli, riapre l’ombrellino delle critiche formalistiche. Siamo attorno al 1750. Bettinelli è un personaggio notevole, responsabile dell’invenzione, fra le altre, della parola “Risorgimento”. Mettere all’ indice l’opera che, stampata in migliaia di copie, si trovava in tutte le case, ne avrebbe incentivato la lettura. Egli suggerisce dunque che di Dante non serve conoscere più di cinque canti, insinuando che gli altri sono noiosi, e fra questi suggerisce i personaggi di Francesca, di Ulisse e magari dello spaventoso Ugolino, scarnificati del tessuto connettivo, lo schema logico che li rende comprensibili, struttura la fioritura artistica del Rinascimento, esplode in figure di strabiliante profondità ed esprime i valori di un’ epoca. Con un testo di questa ricchezza, esaltando le virtù di alcune terzine egli ottiene l’effetto barocco di oscurare tutte le altre. La bellezza medievale plastica, quasi scolpita nelle parole, le innocenti sconcezze da giullare, vengono allontanate e inglobate in una falsa prospettiva scenografica, arte nella quale gli italiani di quei secoli sono, non per caso, maestri.

Questa impostazione, fondata sulle caratteristiche materiali e sui limiti dell’ oggetto-libro stampato, riesce vincente con i romantici, tanto inclini alla stupefazione, quanto poco addentro alle questioni dottrinali, con l’eccezione di Gianbattista Vico e pochi altri. Il “velame”, da oggetto della dottrina della rivelazione contenuta nei “versi strani”, diventa un volgare siparietto dietro il quale non si trovano che avanzi di cucina di qualche erudito presentati come se fossero i veri contenuti del poema. Gli altri canti, se conosciuti, non sarebbero meno strepitosi. Ma Inferno V (Francesca) e Inferno XXVI (Ulisse) rimangono anche oggi i più eseguiti. Di solito ne vengono letti solo alcuni versi, sempre gli stessi, che tutti conoscono e che, senza gli altri, rimangono impossibili da capire. Si perdono così la definizione delle figure, i rimandi fra terzine che fanno la meraviglia dei lettori ingenui e la delizia degli esperti, i motivi dottrinali, la loro collocazione nei quadro storico, l’arte della memoria. Il risultato più notevole è che alla maggioranza rimane sconosciuto il 97-98% (!) del testo. La fortuna di Dante in tempi moderni è scandita dai tentativi romantici di recupero, che hanno i loro campioni in Alfieri e in Foscolo e il loro apostolo in Mazzini, che vedeva in Dante un padre della patria, intesa come lingua comune e che ne ripeterà spesso i concetti. Ma le autorità centrali, in principio ispirate dalla predicazione mazziniana, si astennero dal partecipare alla fondazione della Società Dantesca Italiana a Firenze, insospettite dagli elementi cultuali, e a volte arrivarono a cancellare Dante dalla programmazione scolastica. L’ affissione di lapidi in tutte le località menzionate per vocabolo fu una idea di Benedetto Croce, ministro della istruzione nel 1921, anno del seicentenario della morte.

E viene meno anche la contemplazione condivisa senza la quale la bellezza non si può più chiamare tale. Quella delle parole di Dante è nel ripeterle a voce alta a qualcuno: i familiari vanno benissimo. La lingua volgare è quella parlata da “mulieres et parvuli”, donne e bambini -oggi chiusi dal covid 19 nelle loro tiepide case. A loro può essere d’aiuto adesso la lingua che aiutò Primo Levi a tenere testa all’inferno e a tornare vivo. Non abbiamo mai smesso di ripetere a voce alta, bene o male, i suoi versi, alcuni dei quali sono diventati proverbiali.

In tempi più vicini a noi, la prima registrazione completa del poema è l’edizione Fonit-Cetra del 1971, con la consulenza di Orazio Costa, e la voce di alcuni dei migliori attori del momento. Dalla storica lettura di Bene dalla Torre degli Asinelli di Bologna (1981), alle registrazioni di Gassman (1993) i segni del prevedibile ritorno di Dante sono continuati ad arrivare. La fortuna delle letture di Sermonti aveva sorpreso tutti. La gente normale vuole capire ed è quando le parole tornano a squillare, ricreando ipso facto la dimensione per la quale sono state scritte, che i significati si aprono alla comprensione come fiori alla prima luce del sole.

Mobilitati dai trenta milioni di euro che il settecentenario renderà disponibili, qualche migliaio di arcadi progettano di nutrirsi di misteri il più delle volte fasulli, associando di norma al testo qualche elemento eccezionale, sia esso l’interprete, il luogo, l’occasione, l’ ultima versione critica, qualsiasi tipo di virtuosismo ispirato al testo ma non il testo. I risultati, non brillanti, sono una miriade di iniziative che genera una attenzione paradossale, perché destinata a rimanere, per definizione, insoddisfatta. In definitiva il dantismo, di per sé noiosissimo, si può prendere come “pubblicità” per il gioco della Commedia, per giocare il quale bastano e avanzano le parole e regole semplicissime. Ma anche oggi Francesca e Ulisse rimangono le figure più conosciute, con tutti i Gassman e i Sermonti che hanno tentato un approccio meno episodico e frammentario ad un testo che si presenta come un insieme coerente e logico; con tutto Fo, che ha cercato con la tradizione socialista di fare un “compagno” dell’avversario di Bonifacio VIII; e con tutto Benigni, che ha il merito di averlo portato in TV, ma ha potuto farlo solo evitando ogni lettura dottrinale (e si è fermato sulla porta Purgatorio).

Manca una tradizione esecutiva dell’italiano più apprezzato al mondo, un patrimonio immateriale che pare sfuggito ai radar dell’UNESCO. Quando si tratta della lettura non si sa mai chi chiamare. Finora si è fatto ricorso al frate fissato, al professore in pensione, a gruppi di volontari in coro. Si affacciano all’orizzonte dei palcoscenici virtuosi che lo fanno a margine di altri impegni, si esibiscono in suoni gutturali e note di testa e cercano pretesti per effetti, eruditi cruscanti, critici, romantici, ispirati di tutte le andature, registi con idee loro e altrui, autori di opere liriche, storici mediatici, specialisti in illuminazione di ambientazioni suggestive in grotte, selve e vulcani, camminatori a piedi e in treno, sommelliers, aziende agricole, produttori di vino e di formaggio di fossa, eccetera: tutti provano a vendere qualcosa. Certi pensano che basti vestirsi con una palandrana rossa. Qualche critico cerca il proprio merito personale nello scovare un colpevole su cui scaricare difficoltà di comprensione quasi sempre inesistenti: al limite il poeta stesso.

Questi riti finiscono di solito con qualche “doppio” che conta più dell’autore che si pretende celebrare. Tutte le manifestazioni del Settembre ravennate e verosimilmente quelle in programma per il 2021 ripetono lo schema binario “Dante interpretato, riscritto, rivisto dal Tale o dal Talaltro” con implicita concorrenza fra celebrante e celebrato. Pare che un angelo sterminatore prescriva l’eccezionalità delle occasioni e minacci con la spada chiunque osi misurarsi col testo.