Lettura a voce alta e conoscenza a memoria

Quando Dante scrisse, alla fine del medioevo, i modi di leggere e scrivere erano distinti fra loro. C’erano specialismi in ogni cosa: chi sapeva scrivere non era detto che sapesse anche leggere a voce alta. La scolarizzazione di massa le ha unificate in pratiche che si dimenticano dopo le scuole elementari. I modi di rendersi padroni del testo dantesco sono, in sintesi, i seguenti:

Lettura silenziosa
E’ il primo contatto con le parole, utile per individuare i passaggi non immediatamente comprensibili e tornarci in seguito, grazie ad una edizione ben annotata o alle informazioni che trovate in questa pagina.

Lettura ruminata
Si fa a voce bassissima, senza alcuna intonazione, per muovere le corde vocali. L’ impegno del corpo è un fatto fondamentale. Serve a iniziare a percepire il suono delle parole e ad imparare il testo a memoria, grazie a dettagli figurali spesso trascurati, come le indicazioni di “destra” e “sinistra”, i colori della scena, ecc.. Dante indica questo modo di avvicinarsi al testo con la locuzione “ficcare gli occhi”. Possono emergere così le “figure” che si possono cominciare a fissare nella memoria. Vedere L’arte della memoria per capire la tecnica.

Cantilena
Si leggono a voce alta tutte le sillabe come se non significassero nulla, cercando di eliminare ogni accento, ogni inflessione, anche la ritmica interna ai versi, come se a leggere fosse un robot del secolo scorso. Si eliminano le pause e si pronunciano le sillabe tutte uguali. Si cambiano tutte le vocali prima in a, poi in e, i, o, u. Da fare in macchina o quando nessuno sente. È come fare ginnastica. Serve a togliere le inflessioni dialettali e la ritmica irriflessa che chi è all’inizio confonde con quella dei versi. Niente di male se ogni tanto vi scappa da ridere, anzi.

Dettatura
È un passaggio decisivo. Il volume della voce è sufficiente per farsi sentire da chi scrive sotto dettatura. Praticatissima prima della stampa a caratteri mobili, oggi se ne fa esperienza alla scuola elementare e poi non più. Nella dettatura il suono delle parole emerge senza alcuna delle motivazioni espressive tipiche delle epoche seguenti. Questo modo di leggere conduce ad una padronanza chiara e distinta delle parole e della sintassi. Chi detta o finge di dettare può interrompersi e spiegare agli scrivani il senso delle parole, come se fosse in classe. Nella edizione Hochfeiler ci sono note adeguate a questa fase, che va praticata facendo lo sforzo immaginativo che qualcuno ascolti e scriva (quindi si inizia a prendere il tempo giusto: di solito vanno tutti di fretta). Tenete anche presente che al tempo di Dante i segni grafici erano molto semplificati. Non si usavano né la punteggiatura né le maiuscole, introdotte dopo dai soliti “esperti” di niente, con aggravamento, non facilitazione della comprensione. Distinguere le parole espressive con virgolette e due punti da quelle descrittive toglie qualcosa alle prime e alle seconde.

Un bel tacer non fu mai scritto
Una volta arrivati a questo punto, si possono cercare le proprie pause (e magari segnarsele). Questo presuppone la piena comprensione del testo e la conoscenza a memoria. Viene meglio pensando, o essendo realmente in presenza di un (piccolo) gruppo di ascoltatori. Qui si impara a prendere fiato quando serve (le prime trascrizioni non hanno punteggiatura). Le pause non le fa mai nessuno ma servono a dare a chi ascolta il tempo di considerare la profondità delle parole che sta ascoltando: io mi fermo e tu ci pensi. Il pubblico apprezza questo riguardo.

Declamazione
Deriva direttamente dall’oratoria giudiziaria, dalla quale eredita le tecniche di memoria (cfr. la Rhetorica ad Herennium, trattato anonimo attorno al 90 a.C., che si può considerare la struttura stessa della comedia sul piano retorico, e qui L’arte della memoria, cit.). Ci si pone il compito di raggiungere un gruppo di ascoltatori. Si inizia ad usare il diaframma per modulare la voce e darle volume e rotondità. Qui si prova a servirsi delle indicazioni dinamiche come “voce chioccia” (Inf. VI, 2), “di forza” (Inf. XIV, 61), eccetera. Gli attori professionisti sanno come usare le cavità craniali, i suoni gutturali, gli acuti, la voce di pancia e quella di testa, ma appena le cose si fanno spettacolari si perde la dimensione umanistica originaria e si introduce qualcosa di estraneo. Dunque attenzione al canto XI del Purgatorio, dove ritorna la parola “nostro” del Primo dell’Inferno, ma in un tono più alto.

Dizione magistrale (lasciate perdere)
I nomi che vengono in mente sono quelli dell’edizione Fonit-Cetra del 1971, di Carmelo Bene e di Vittorio Gassman, che registrò l’Inferno auspicando che altri facessero la stessa cosa col Purgatorio e il Paradiso (ma nessuno ha raccolto il testimone). Alcuni lettori hanno esperienze personali tali da illuminare il senso delle parole e possono dare belle sorprese. Solo chi ha provato le angosce che conducono al suicidio sa dire gli ultimi versi del canto che ne tratta, Inferno XIII. Per tutti gli altri è sconsigliabile immaginare che vi sia un modo perfetto, “vendibile” di fare Dante. Non c’è, e va benissimo così. “Vendere” la Commedia è toglierle l’ aura che vive invece ogni volta che si pronunciano i versi fra persone non disposte come spettatori ma come interlocutori attivi, a voce alta nel piccolo gruppo. La situazione “romantica” di interpreti dotati di particolari virtù espressive che si esibiscono lo contraddice frontalmente.

Il piacere della conoscenza a memoria
Oggi si imparano filastrocche solo alle elementari e poi si dimentica come si fa. Però ricordare le cose imparate da bambini è un piacere in sé stesso. La conoscenza a memoria era anch’ essa abituale ai tempi di Dante, che scrive versi quasi identici agli originali. Consegue naturalmente dalla lettura a voce alta, per tre motivi:
1. la lettura a voce alta mette in movimento con le corde vocali e la mimesi, tutto il corpo;
2. Dante fa uso accorto delle tecniche di memoria degli oratori latini per facilitare la memorizzazione;
3. il piacere del testo che essa comporta: solo chi la sa a memoria può confrontare le situazioni diverse in cui Dante adopera termini uguali e figure analoghe. Quando ad un certo punto dell’Inferno (XXV) ricompare un centauro, esso richiama, con i centauri di un canto che precede (XII) un preciso tema morale in una situazione differente. Tutto il piacere sta nel godere della analogia assieme al piccolo gruppo con il quale si rievocano le parole. Le note possono facilitare, ma non sostituire la pronuncia delle parole. È nella conoscenza a memoria che sono incastonate le perle di Dante. Per lui non c’era modo più normale.

Ripetere, ripetere, ripetere
Non basta saperla a memoria, non basta farla ad alta voce, bisogna pure farla parecchie volte con persone diverse e commentarla con loro. Allora nella propria lettura si equilibrano le letture altrui. E’ il concetto averroista di “intelletto possibile” (l’opposto dei “labirinti” e delle “infinite interpretazioni”). Tutti hanno la loro esperienza e le parole stanno in mezzo. Chi pretende di imporre la propria come unica rischia il ridicolo, quando non ci capisce, o l’osceno, quando diventa padrone di effetti spettacolari. L’ interpretazione è una sola, e sono i Vangeli e il loro significato in quel determinato momento storico, da “visitare” come si fa con una attrazione turistica.